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CAPILLARI DEL SUD

Progetto internazionale di arte partecipata e relazionale nel campo profughi di Diavata, Grecia


di Samantha Vichi

Collettivo Wild Art Project

Capillari del Sud tratta di una serie di workshop durati tre mesi, scritti e pensati per le donne ospiti nel campo profughi di Diavata, in Grecia, e che si sono sviluppati all’interno del progetto Thessaloniki Project.





Il progetto e i laboratori


Gli incontri hanno dato vita a tre opere distinte che, con metodologie e tecniche differenti, trattano temi centrali quali: la riconquista di uno spazio intimo perduto, la cura di sé e la capacità di tornare a desiderare. SelfSpace, Past, Present, Future e SharedVillage, testimoniano l'individualità di ogni partecipante ai laboratori, uscendo da una raffigurazione stereotipata legata alla figura del profugo.

Thessaloniki Project è la prima iniziativa attuata dal collettivo artistico Wild Art Project, formatosi nel 2019 da Samantha Vichi e Olga Sperduti e incorpora due progetti distinti che hanno avuto luogo nel campo rifugiati situato nei pressi di Salonicco. Due concept differenti per due diverse fasce di età, Capillari del Sud ha interessato le donne, mentre Art class today, progetto di Olga Sperduti, è stato rivolto alle teen-ager.



Il campo di Diavata a Salonicco


All’interno del campo di Diavata convivono insieme varie etnie, profughi Siriani che scappano dai bombardamenti, Kurdi, Afgani, Iracheni e Pakistani. Il progetto da me scritto nasce all’interno di un contesto che fortemente caratterizza il periodo storico vigente e la crisi economica-umanitaria che questa epoca sta vivendo. Si tratta di 13.835 persone, nei soli mesi del 2020, tra rifugiati e migranti provenienti da Afganistan, Siria, Algeria, Congo e Palestina solo per citarne alcuni. Il numero, già impressionante, appare ancora più tragico se si pensa che esso tiene conto soltanto dei migranti registrati entro il 24 febbraio 2020 a partire dal gennaio dello stesso anno, giunti ai confini dell’Europa. Di queste 13.835 persone 11.446 sono arrivi via mare, 2.389 via terra, e 99 di essi sono morti o dispersi.

Il campo di Diavata ospitava, al momento in cui si sono svolti i laboratori, circa mille persone registrate, per metà bambini, alle quali vanno aggiunti altri quattrocento cosiddetti irregolari; nel primo gruppo rientrano uomini, donne, bambini a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato, nel secondo si considerano invece tutti gli altri, ossia coloro che sono privi di documenti, oppure sono considerati soltanto migranti economici o, infine, sono in attesa di una risposta, governativa o europea per ottenere il riconoscimento del proprio status. Il campo, aperto dagli inizi del 2016, sorge su una ex base militare ed è uno dei più popolosi nella Grecia settentrionale, gestito direttamente dal Governo ellenico e da alcune organizzazioni internazionali. Sono proprio queste a fornire cibo e alloggi alle persone presenti. L’UNHCR, ad esempio, assegna fabbricati ad uso alloggio, tende e pasti. Le tende, teoricamente offerte come soluzioni abitative temporanee, divengono spesso alloggi in cui le persone rimangono per mesi, soprattutto nel caso di singoli individui o famiglie che non hanno minori all’interno del proprio nucleo. Non è raro inoltre che più famiglie condividano lo stesso spazio, sia esso una tenda o un box, creando difficoltà di convivenza, soprattutto per le ragazze adolescenti, costrette a coabitare con uomini estranei. Tutto ciò crea situazioni di grande disagio alle giovani, quando non le espone a grandi rischi.

Per garantire l’accesso ai servizi igienici a chi non è dislocato in un box, sono stati realizzati dei bagni comuni, divisi per genere. Inoltre all’interno del campo sono presenti una struttura per i minori non accompagnati, un edificio adibito a scuola sia per bambini che per adulti, e, infine, una costruzione ad uso palestra che dispone anche di un’ulteriore aula.

I laboratori di Capillari del Sud si sono svolti all’interno di questi spazi ed hanno anche preso luogo in un edificio adiacente al campo chiamato informalmente Casa Base. Entrando nel campo, le prime cose percepite sono, senza dubbio, uno spazio fisico e temporale completamente dilatati e ristretti al tempo stesso. Lo scorrere del tempo viene percepito in relazione all’attesa, attesa lunga ed estenuante che porta ad estraniare l'individuo da una quotidianità e routine creando Non persone all'interno di un Non luogo.


Un progetto creativo per l’Essere umano

Scrivere un progetto per un’utenza che non si conosce e che risiede in un luogo in cui non si è mai stati, un’utenza che presenta usi, costumi e cultura lontani dai nostri è sicuramente cosa difficile. Inoltre, in un luogo in cui è chiaro che i bisogni primari come cibo, acqua, assistenza medica e psicologica, sono al primo posto per importanza, ha senso portare un progetto tra arte e terapia? Questa è la domanda che mi ha accompagnata per i mesi che hanno preceduto la partenza e quelli di lavoro nel campo. Oggi posso però confermare quanto le mie intuizioni sul sentirsi un insieme nel mondo, abbiano portato alla scrittura di un progetto pensato in primis per l’essere umano in quanto tale, sebbene la società lo etichetti solo come migrante.


Laboratorio come spazio di incontro, comunicazione, narrazione e condivisione

I laboratori hanno ricreato un lasso temporale vissuto dalle donne in quanto persone fisiche e psicologiche attive, uno squarcio di tempo non più scandito dalla sola attesa e percepito quindi come tempo morto, privo di significato, ma al contrario, il nostro trovarsi nel creare insieme ha dato luogo ad importanti momenti durante i quali ognuna delle partecipanti cessava di essere profuga, madre o moglie ed hanno avuto la possibilità di riappropriarsi di un’individualità perduta o, quanto meno, avere uno spazio ed un tempo per dedicarsi alla sua riconquista.

Quanto fosse importante ricostruire uno spazio intimo e protetto, utile anche a ricreare una quotidianità durante la permanenza nel campo, mi era stato chiaro sin dall’inizio, ma non meno importante e

secondario è stato osservare come le donne necessitassero di un luogo in cui raccontarsi. Già durante il nostro primo incontro l’impiego dell’argilla è risultato particolarmente indicato in un contesto come quello in esame poiché, le proprietà plastiche del materiale e la facilità di manipolazione dello stesso hanno consentito di istaurare una relazione comunicativa che riuscisse a trascendere dalle difficoltà culturali e linguistiche, insite in tale situazione. Se si pensa ad esempio all’importanza che il dialogo assume nella rielaborazione, ci si rende conto di come questo sia difficilmente riproducibile in un contesto multiculturale, multilinguistico e precario come quello di un campo profughi. L’argilla è stata impiegata sia in maniera scultorea per la creazione di Shared Village, sia come pigmento pittorico-grafico nella realizzazione dei monotipi base dell’opera Past, Present, Future. La multidisciplinarità dell’argilla, unita all’impiego della stessa nella duplice forma di materiale, (qualità di ) liquido e solido, ha consentito di lavorare su differenti piani emozionali. Durante la creazione di numerose tavole di monotipi, l’uso della creta liquida ha permesso di catturare le sensazioni di chi compie il gesto, lasciando un segno che ne è la traccia. Il monotipo diviene quindi la stampa che riporta il segno della traccia emozionale di chi compie il movimento. Fissa l’emozione di un qui ed ora fugace in un segno che rappresenta la risposta grafica a domande quali:

Come mi sento in questo momento?

Dove mi trovo?


Le “istantanee emozionali” delle donne partecipanti

Nonostante le numerose definizioni che si potrebbero offrire di tale aspetto, nulla mi appare più adeguato per esprimerlo nella sua disarmante e profondissima semplicità delle parole di Masoume. La donna alla fine di un laboratorio, quando avevo chiesto a lei e alle altre un feedback sul lavoro appena svolto, mi aveva risposto che le immagini che rimanevano impresse nel monotipo rappresentavano esattamente come lei si sentiva in quel momento. Ripensando adesso a quella definizione permane in me la sensazione di profonda corrispondenza tra segno ed emozione che la mia interlocutrice voleva fornirmi, definirei i monotipi realizzati come delle istantanee emozionali.

Solitamente l’utenza di un laboratorio nel corso del tempo tende a stabilizzarsi e dopo i primi incontri, a rimanere costante. In un contesto come quello del campo, tuttavia la variabilità dell’utenza era molto alta; accanto ad un nucleo centrale di ragazze che partecipavano in maniera costante, si univano donne che non erano potute venire prima, ma che avrebbero voluto, donne giunte dopo al campo, donne amiche di chi aveva già usufruito dei workshop, donne che ancora non erano a conoscenza degli incontri in corso e molte altre che, per i più svariati motivi non potevano partecipare costantemente. La creazione di un senso di unitarietà nel gruppo era, in un tale contesto assai complesso ma più che mai necessario.


Pertanto, all’inizio del percorso ho preferito lasciare un modus operandi molto libero e spontaneo mettendo loro a disposizione diversi Kg di argilla. Sul tavolo da lavoro sono così comparsi piccoli vasi, contenitori, cestini e le giornate di laboratorio sono state gestite con un profondo spirito di osservazione da parte mia lasciando la libertà nel decidere cosa creare con la creta. Un tale approccio ha reso evidente la necessità che le donne avevano di raccontare la propria storia; tramite le loro creazioni Fateme, Zahara e le altre parlavano di un quotidiano perduto, attraverso la riproduzione di oggetti di uso comune nel proprio Paese, oggetti presenti nella propria casa o nelle città di provenienza. Nasce da qui l’idea di creare un villaggio condiviso: individualmente sono stati riprodotti monumenti, forni, piatti ricolmi di cibi tipici, torrette, piante, case e animali di paesi diversi e lontani. Tutti gli elaborati sono poi stati posti al centro del tavolo a creare una composizione a partire dalla quale ogni donna ha parlato a proposito della propria creazione.

Proprio per facilitare la reciproca conoscenza e rendere meno difficoltoso il racconto di sé e del proprio vissuto, ho proposto una giornata durante la quale, lavorando su tre fogli distinti con dei pennarelli indelebili, ognuna tracciasse disegni, strade e percorsi riguardanti il proprio passato, il presente ed il futuro immaginato. Il laboratorio, in discussione rappresenta l’ultimo step per la creazione dell’opera condivisa “Past, Present, Future”.


Durante l’ultimo mese, abbiamo realizzato un unico e grande baldacchino condiviso. Per la creazione dell’opera, intitolata in seguito SelfSpace, sono stati utilizzati oltre 8 metri di tela per pittura. L'opera terminata presenta una base circolare ed è stata installata in modo tale da ricostruire una tenda in cui sia possibile entrare.

Durante la prima esposizione, avvenuta nei locali di Casa Base, ho invitato le donne che avevano partecipato al laboratorio ad entrarvi, per godere di questo spazio, pieno di ricami e desideri, per ricordare loro la bellezza che erano riuscite a creare lavorando e stando tutte insieme. Self Space è un’opera che riporta tante storie, storie di donne resilienti che si aggrappano alla speranza per poter andare avanti e affrontare una vita fatta di fuga dalla guerra, dalle persecuzioni e tanto altro.


L’iter necessario alla realizzazione dell’opera è risultato assai simbolico, infatti SelfSpace porta con sé la metafora della ricostruzione di un luogo sicuro, dopo che esso è stato distrutto, rendendolo pericoloso ed invalicabile.

La prima fase del laboratorio, in cui mani e braccia hanno tracciano dei sentieri, rievoca le mappe di città esistenti, mentre lo strappo della tela ha creato divisione, andando a rompere le strade rappresentate.

La frammentazione ha una duplice valenza: da un lato richiama i percorsi fisici, distrutti dalla guerra e dalle avversità che si sono concretizzate nei Paesi d’origine delle diverse donne, dall’altro, può essere inteso come la rottura di un cammino interiore. Appare evidente come, nella vita di una donna ospite in un campo profughi, la perdita di un luogo sicuro sia esperienza comune; andare ad impreziosire in maniera individuale i lembi di tela strappati ed arricchirli con dei ricami significa, di fatto, iniziare a ricostruire la speranza di un futuro che accolga ciò che si desidera. Il desiderio di riappropriarsi del futuro, la funzione di “tela dei desideri” assunta dal lavoro si evince chiaramente se si considera ciò che viene rappresentato: un'altalena per il figlio Navid, un viale alberato intorno a casa, dei fiori, l'albero da frutto che si possedeva nella lontana Siria…


Se in questa fase del laboratorio il lavoro si è concentrato maggiormente sulla dimensione esterna, focalizzando l'attenzione su cosa si voglia trovare in una città ideale, nella realizzazione della silhouette si è raggiunta una dimensione più intima ed emozionale. Tutti i passaggi laboratoriali si uniscono, fisicamente e simbolicamente, in un patchwork finale, creato cucendo tutti i vari lembi di tela con filo rosso a simboleggiare la possibilità di ricostruzione.


Arte come integrazione e accoglienza

Tornando alla domanda posta in precedenza, In un luogo in cui è chiaro che i bisogni primari come cibo, acqua, assistenza medica e psicologica, sono al primo posto per importanza, ha senso portare un progetto tra arte e terapia? sento di poter dare una risposta positiva in quanto, le riflessioni scaturite dal percorso confermano che ogni essere vivente trae beneficio dall’ascolto e la condivisione reciproca nonché dallo stimolo di azioni proposte in maniera disinteressata. L’arte si è resa in questo caso facilitatore del processo di integrazione e di accoglienza nel paese ospitante.






Per maggiori informazioni:

Ig: Samantha Vichi

Ig: wildart_project


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