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SHOBHA – Cambiare il punto di vista
Intervista a Shobha Angela Stagnitta a cura di Isabella Tholozan
pubblicata a marzo 2021 su Fotoit - La Fotografia in Italia, organo ufficiale della FIAF Federazione Italiana Associazioni Fotografiche
Nella fotografia di Shobha c’è tanto mondo, Cuba, la Siria, il Brasile, il Messico, la Thailandia, l’amata India e la sua Sicilia. Nel presente, dopo aver pubblicato sulle più importanti testate italiane e straniere, porta avanti i suoi progetti di ricerca antropologica in Asia, con la fotografia, il video e la scrittura. In questa breve intervista, ci racconta di un nuovo umanesimo fotografico che può essere di tutti.
D. Perché la fotografia?
S. Non mi sono mai chiesta il perché delle cose, perché la mente formula domande a cui non può rispondere, mi fido dell’intuizione. Io ho trovato una sorta di dialogo con me stessa, per esprimere un invisibile che ho dentro e che riconosco ogni qualvolta faccio qualcosa di creativo. Ho scelto la fotografia perché essendo una meditativa posso lavorare sulle immagini interiori. Mi sono resa conto che le immagini potevano cambiare la mia vita, non ero io che le subivo ma ero io che le creavo.
D. Ma non solo questo, considerato il tuo percorso.
S. Certamente, ho fatto la reporter per anni, la reporter di guerra, perché in fondo era un modo per dire: vediamo se sono capace ad accettare la vita come viene, ad essere lì nel momento presente come testimone senza tirarmi indietro. Era un modo per conoscermi, per sentirmi.
D. Il tuo vissuto di reportagista è noto. C’è un tuo “essere fotografa” che è stato influenzato da un altro aspetto importante nella tua vita?
S. Per anni ho praticato la meditazione, e li guardi dentro di te, le immagini che arrivano sono interiori, arrivano dalle informazioni che ricevi dal tuo DNA. Grazie ad essa ho capito che si può cambiare la frequenza del mondo. Viaggiando poi ho compreso che la macchina fotografica è la mia parte invisibile che racconta un mondo che mi appartiene, non quello sociale, le dinamiche, le costellazioni familiari, la gente, ma è la vita, l’esplosione della vita continua.
D. È così che hai capito che volevi fare la fotografa?
S. Si, mi piaceva fare questo lavoro, e così, tornando in Italia, dopo tanti anni, ho accolto la proposta di mia madre di dedicarmi con lei alla fotografia. Ma io non ne volevo sapere di morti ammazzati, perché ne venivo da un altro tipo di ricerca. Allora mi sono detta: io devo dire di sì alle mie paure, conoscere la Sicilia in un’altra maniera, perché non volevo guardare la sua parte violenta. Adesso però, dopo tanti anni di lavoro, mostre, gallerie, quel passato è finito.
D. Cosa ti interessa, nel presente, della fotografia?
S. La poetica, raccontare il mondo, condividerlo, ridonargli bellezza, mi sembra che ci sia stato un grande tradimento, un mito sociale sbagliato; ora il mio lavoro è quello di seguire il mondo e di esserne spettatrice ma anche creatrice, per guarirlo da uno sguardo superficiale e violento, proiettato solo al consumo e non alla gratitudine. Quando dico deprogrammare lo sguardo, voglio dire proprio non guardare con gli occhi del mondo, ma farsi guardare, arrendersi ad esso alla sua impermanenza e grande bellezza. Questo voler cambiare il punto di vista è la mia relazione con il creato, non sono più io che lo guardo ma è lui che guarda me, mi nutre e mi cura. Per questo mi sento come una guaritrice, una “curandera”, capace di guarire non la malattia ma l’atteggiamento. Se vado a Palermo nei quartieri più degradati, arrivo con il sorriso, perché non voglio fare fotografia dove c’è tensione, perché quella l’abbiamo già vista, le immagini sono sempre troppo forti; spesso vedo che la gente è sedotta dalle immagini violente proprio perché è talmente piena di rabbia, che ha bisogno di questo specchio. Io invece voglio portare a vedere qualcos’altro, uno spazio spirituale intimo e di gratitudine. Le mie fotografie sono doni che riconsegno; non ho niente se non sentire, amare, gustare la vita. Ogni azione della mia vita è un co-creare con l’universo quello che sta accadendo. È molto semplice, ma anche molto difficile.
D. Ti stai dedicando tanto alle donne, pensi che il mondo femminile, in questo momento, sia più predisposto a questo tuo modo di sentire piuttosto che il maschile?
S. Sono consapevole di questo aspetto, l’ho provato, pochi fotografi mi amano, intanto per molti di loro sono sempre e solo la figlia di Letizia Battaglia, anche quando ero fotografa di guerra o facevo tanto reportage, sono stata spesso aggredita, perché davo fastidio. Non mi interessa lavorare con quel tipo di maschile, a me interessano gli uomini che hanno un femminile importante dentro, vorrei fare un lavoro dedicato a loro; sono tanti quelli che mi seguono, anche in Nepal in India, sono meravigliosi, ma sempre pochi. Con il femminile si crea una complicità, una leggerezza, si può parlare di qualunque cosa, non hanno aspettative le persone aperte. E spesso sono le donne, perché hanno sofferto di più, hanno avuto i figli, viaggiano attraverso le loro energie. L’uomo è un poco più chiuso sotto questo aspetto, è più programmato, non è male, ma in questo momento voglio vivere questa condivisione di sorellanza a cui lavoro già da alcuni anni.
D. Vedi imitazione da parte delle fotografe del modo maschile di lavorare?
S. È così, sicuramente certe fotografe sono narcisiste, ancorate a sé stesse. Quando mi guardo mi vedo piccola e di un’ignoranza estrema e faccio di tutto proprio per non identificarmi con quel piccolo Io. Manca secondo me una visione spirituale nell’arte. Fotografare è un momento meraviglioso, un’unione mistica con il mondo e con ciò che hai dentro, tutto si unisce. Questo lo puoi vivere solo se hai attraversato il tuo maschile, usandolo nella vita quotidiana, lavorando, facendo le cose della vita. Poi c’è il femminile che io chiamo spirituale. Quando un uomo accetterà il suo maschile fino in fondo ed inizierà a lavorare sul suo femminile, secondo me, il mondo cambierà, perché il legame tra noi e il tutto è solo l’amore.
D. Questo cambiamento di cui tu parli è già in atto e si ritrova in tanti autori di ambo i sessi. Sono autori che hanno lavorato prima di tutto su sé stessi. Questa può essere la diversità che bisogna cercare nella fotografia contemporanea?
S. La fotografia è una cosa intima, tu sei nel mondo e sei immerso nella gratitudine, solo, fragile, però nello stesso tempo ricevi; è un cammino spirituale la fotografia, perché tu crei immagini. Adesso, ad esempio, credo molto nell’Akascha, una sorta di memoria, l’essenza base di tutte le cose del mondo o dello spazio, è la capacità di far esistere delle cose al suo interno. Ogni giorno faccio di tutto per lasciare una memoria che fiorisce, non che uccide, come la violenza delle immagini che ci circondano. Per questo lavoro con gruppi, non solo per la fotografia ma anche per cambiare lo sguardo. Bisogna deprogrammarsi per capire che non esiste una cosa sola, che grazie alla spiritualità le immagini possono cogliere il tutto.
D. E poi c’è l’India, un paese che ti ha dato tanto…...
S. La mia era una famiglia giovane, atea, la spiritualità non era considerata. Sono partita per l’India che avevo 21 anni, la maggiore età dell’epoca. Sono stata accolta come in famiglia, l’ho riconosciuta in me e sento di dover restituire quello che ho ricevuto. Ho vissuto in comunità, a 21 anni sono entrata nell’ashram e fino a 28 mi sono dedicata a lavorare su me stessa, cercando di cambiare le immagini interiori. Cercavo una guida spirituale, la prima cosa che chiesi al mio maestro fu: ma io chi sono? La risposta fu: tu non sei nulla! Mi ha insegnato che Atma o Dio, come lo chiamiamo noi, abita tutte le cose ed è anche dentro di noi, per questo non siamo nulla, da allora ho visto in una maniera diversa, la mia vita è cambiata.
D. Il ritorno in Italia cosa ti ha mostrato del tuo cambiamento?
S. Quando vivo in India, in Nepal, non mi sento mai straniera, tra le donne c’è una forte sorellanza. I primi anni quando lavoravo con i gruppi femminili in Italia ho sofferto tantissimo, perché nascevano all’interno forti contrasti. Per me fu uno shock, un trauma. Poi mi sono detta che questa cosa dovevo superarla, mi sono fatta forte e ho cercato di riprodurre quello che ero abituata a vivere fuori dall’Italia: la sorellanza. Durante queste attività in gruppo si medita, si canta, si fotografa, si cucina, è bellezza. Diventiamo tutte grandi, diventiamo canali di leggerezza.
D. Il tuo lavoro si divide ora tra l’Italia e l’India?
S. Passo sei mesi dell’anno in India, durante i quali organizziamo gruppi di insegnamento, non facciamo solo fotografia. Ad esempio lavoriamo all’interno dei cantieri edili dove le operaie vivono con i figli, portiamo loro delle macchine fotografiche e andiamo a visitare l’India che non conoscono. In quei momenti non è la fotografia la cosa più importante, è che loro attraverso la macchina guardano il mondo per la prima volta, in un’altra maniera. Per me l’India è creatività, è amore, è restituire tutto quello che ho avuto: la mia parte migliore. La mia poca ambizione mi porta ad avere un rapporto con la fotografia che può sembrare poco ortodosso, non è importante mostrare, importante è chi viene a vedere, e avere con esso una condivisione profonda della sacralità che ho voluto fissare nella fotografia. Vivo con la fotografia la mia dimensione che non posso cambiare, non mi interessa la competizione, per me la visione della fotografia è vivere, è come guardo le cose, come le sento.
D. Hai un desiderio, un progetto?
S. Mi piacerebbe portare in Italia quello che ho fatto in India, una casa dove accogliere artisti e condividere arte. Ritornare a viaggiare, scegliendo come sempre luoghi energeticamente forti con gruppi di persone Grate! In realtà non ho altri grandi sogni, sogno un mondo di pace perché questo che viviamo non mi piace, è volgare, violento, narcisista. Le relazioni tra donne e uomini seguono sempre lo stesso modello, come se non ci fosse creatività nei comportamenti. Nella vita non serve creare sicurezze, perché la vita stessa te le spazza via in un attimo, quindi quello che si crea di bellezza in quell’attimo, poi ritorna.
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